Un esempio concreto: il marchio Conad racchiude al suo interno ben 65 etichette, si serve quindi di marchi di fantasia, invece del solito marchio “Conad”. E questa si è rivelata senza dubbio una strategia vincente.
Mentre all’estero sono già un metodo piuttosto diffuso, in Italia le private label sono una novità abbastanza recente, ma in continua crescita. Valgono infatti l’8,1% dei vini venduti in Italia (ed il 22,6% in Europa). In altri mercati, come ad esempio Svizzera, Regno Unito, Germania e Spagna, detengono addirittura la maggioranza assoluta del venduto.
Per quanto l’Italia sia ancora indietro rispetto a questo fenomeno, i marchi dei distributori hanno iniziato a diffondersi nella seconda metà del secolo scorso. Nel 1979 è nata la PLMA, Private Label Manufacturers Association, che attualmente organizza due fiere annuali, ad Amsterdam e a Chicago.
In generale, si tratta di un fenomeno di mercato che piace ai consumatori, i quali lo vedono come un’alternativa alle etichette più convenzionali. Inizialmente, il termine private label, veniva associato alla vendita di vini di fascia bassa e/o bassa qualità. Ma con la crescita del fenomeno e la buona risposta da parte dei consumatori questo mito è stato sfatato e si trovano sul mercato vini non solo di ottima qualità, ma anche di fasce alte. Una crescita quindi non solo quantitativa ma anche qualitativa.
È molto importante non confondere un vino di standard basso con un vino di bassa qualità. Spesso cantine grandi e importanti, come per esempio alcuni chateaux bordolesi, preferiscono destinare alla private label i propri vini di standard inferiori, ma sempre di buona qualità. L’opzione della private label è infatti un’ottima opportunità per i grandi produttori di alleggerirsi da un eccesso di stock.